A cura dell'Avv. Stefano Di Matteo
Il caso analizzato riguarda la richiesta di restituzione delle somme derivanti da un prestito “grazioso”, somme “garantite” a mezzo di un assegno bancario, poi scaduto, e delle quali il soggetto emittente non riteneva dover veicolare verso il creditore.
L’iter giudiziario si origina da un ricorso per decreto ingiuntivo depositato presso il Tribunale di Perugia, ricorso che poi verrà confermato con l’emissione del Decreto Ingiuntivo per la somma richiesta.
Qualche ora prima dello spirare del termine previsto, la controparte aveva provveduto ad opporlo mediante un atto che, ad avviso dell’opposto risultava essere assolutamente carente dei requisiti minimi per produrre l’effetto dell’instaurazione di un giudizio di merito.
Si rileva immediatamente come il procuratore di parte opponente non avesse indicato nell’atto di opposizione il codice fiscale e PEC personali un tanto ai fini dell’applicazione delle eventuali sanzioni.
Va posto l’accento, inoltre, sulla vocatio in ius dell’opponente che si preoccupava di fissare la data di prima udienza di comparizione oltre nove mesi dopo.
Risultava piuttosto chiaro e lampante che la fissazione di udienza procrastinata a tale data fosse foriera della volontà di insabbiare nelle more del procedimento ogni azione a tutela dei diritti del cliente e fu richiesto al giudice di merito di anticipare l’udienza ad una data più plausibile.
Addirittura, il procuratore il procuratore avversario aveva convenuto in giudizio l’opposto “innanzi al tribunale civile di Roma” oppure “all’udienza fissata dal Tribunale Civile di Perugia”.
Tale modalità essendo chiaramente irrituale e non potendo essere ricondotta ad un errore materiale, si auspicava che il giudice, rilevato ciò, avrebbe dichiarato la nullità dell’opposizione con conseguente definitività del decreto ingiuntivo opposto.
Quanto alle questioni di incompetenza del giudice adito, parte attorea in modo frettoloso (e maldestro) aveva ritenuto di considerare quale foro competente quello previsto dall’art. 18 c.p.c.
Diversamente, andava considerato il foro competente previsto dall’art. 20 c.p.c. e quindi il giudice provvide a confermare la propria competenza.
Dall’opposizione emergeva chiaramente l’intento di procrastinare sine die la causa e il fatto di non aver contestato la sussistenza del debito, né il suo ammontare (con la sola eccezione del modesto importo richiesto per gli interessi) denota un comportamento lesivo dei diritti di difesa del ricorrente ma soprattutto concretava la fattispecie di cui all’art. 96 c.p.c. tanto ai sensi del primo comma quanto ai sensi del terzo comma, tanto da legittimare controparte a richiedere la condanna dell’opponente al risarcimento dei danni da liquidarsi eventualmente anche in via equitativa.
Il procuratore di parte opponente non si era mai presentato in udienza se non alla prima, non preoccupandosi nemmeno di avvertire il collega di controparte della propria assenza.
Di contro, il legale di parte opposta, sempre presente in udienza, nonostante la distanza del Tribunale di Perugia, provvedeva sempre a contattare l’omologo di parte opponente, il quale ha, offerto giustificazioni inverosimili alla propria assenza.
La procedura ha visto avvicendarsi tre giudici, il penultimo dei quali, aveva trattenuto la causa in decisione, salvo poi essere sostituito.
Durante l’ultima udienza, il G.O.P. provvede a pronunciare sentenza in base all’art. 281 sexies c.p.c. e, relativamente alla responsabilità aggravata ritiene parte opponente responsabile dell’illecito.
Illuminante è l’argomentazione posta alla base della condanna e qui si ritiene di pubblicarne l’estratto:
“Come risultante da quanto già precedentemente osservato, ad esclusione di quello relativo all’applicazione al caso di specie degli interessi riconoscibili per le transazioni commerciali, i restanti motivi di opposizioni sono risultati del tutto infondati e formulati in maniera tale da integrare, quanto meno, la colpa grave richiesta dalla suddetta norma.
In effetti, per un verso, l’eccezione di incompetenza territoriale appariva, sin da subito, palesemente strumentale, così come le deduzioni in ordine a non meglio precisati difetti formali dell’assegno ed alla mancanza dei presupposti formali per considerare quest’ultimo “prova scritta” ai sensi dell’art. 634 del Codice di procedura civile.
A ciò deve aggiungersi anche il contegno processuale tenuto dall’opponente che, oltre ad avere indicato nel 12/01/2018 il giorno dell’udienza di comparizione, lontana circa nove mesi dalla data del 05/04/2017 di iscrizione a ruolo dell’opposizione a decreto ingiuntivo (tanto che il Presidente del Tribunale, in accoglimento dell’istanza presentata in data 18/05/2017 dalla difesa dell’opposto, facendo applicazione della previsione contenuta nell’art. 163-bis, comma terzo, del c.p.c., ha anticipato l’udienza di comparizione delle parti alla data del 29/09/2017), l’opponente è comparso, a mezzo del proprio procuratore, solo nel corso della citata udienza del 29/09/2017, disertando, invece, le successive udienza del 18/05/2018 e del 08/06/2018, oltre che l’odierna udienza di discussione.
Quanto sopra esposto depone, pertanto, per il riconoscimento dell'esistenza di un intento puramente dilatorio a base della proposizione dell'opposizione a decreto ingiuntivo o, comunque, a base della controversia relativa al riconoscimento del credito rivendicato dall’Arangi e, per tale ragione, parte opponente merita la condanna al risarcimento dei danni prevista dall’art. 96, primo comma, c.p.c., introdotto dalla legge 69/2009 ed applicabile ai giudizi introdotti a far data dal 04/07/2009.
Infatti, il presente giudizio di opposizione pur se ha comportato, rispetto al limitato profilo degli interessi moratori riconoscibili all’opposto, la revoca del decreto ingiuntivo, nella sostanza, rappresenta un caso emblematico di abuso del processo commesso ad opera di una parte che, in totale mala fede o colpa grave, volendo ad ogni costo dilazionare l’adempimento della propria obbligazione, ha coltivato un’azione giudiziaria priva, in maniera pressoché assoluta, di concreti presupposti giuridici e fattuali.
In ordine alla quantificazione del danno, richiamando le conclusioni formulate sul punto dalla giurisprudenza del S.C. (Cass., sez. lav., 24645/2007, sez. III, 10606/2010) che ritiene che l’abusivo ricorso di una parte alla tutela giurisdizionale cagiona alla parte avversa, costretta ad approntare un’attività difensiva impegnativa e stressante, un pregiudizio di per sé risarcibile e commisurabile alla durata del giudizio, si stima equo riconoscere all’opposta, in considerazione della durata del procedimento, del valore credito azionato e delle ragioni poste a fondamento della revoca del decreto ingiuntivo opposto, un risarcimento del danno pari ad euro 1.000,00, da maggiorarsi degli interessi legali dalla data odierna al saldo”.
Quanto sentenziato dal giudice ha generato una condanna nei confronti di parte opponente per responsabilità aggravata ed una liquidazione in via equitativa di € 1.000,00 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo.
Dibattuta, a livello giurisprudenziale è ancora la questione relativa alla titolarità della responsabilità ovvero se sia o meno percorribile il “ribaltamento della stessa e dei costi” sul procuratore di parte.
Di più semplice determinazione sono, invece, le responsabilità dal punto di vista deontologico: le stesse spaziano dalla mancata probità e collaborazione col collega avversario, al comportamento in udienza, ai rapporti con controparte e col giudice.
Nel caso de quo si è ritenuto, di concerto con l’assistito, di soprassedere nel far valere tale ultimo profilo dinnanzi al Consiglio distrettuale di Disciplina, valutando che, già la condanna ex art. 96 c.p.c. costituisse sufficiente ristoro dei comportamenti riservati da controparte alla procedura giunta a sentenza.